Tra i numerosi fatti raccontati da questo zelante cappellano militare ce ne sono alcuni che mi hanno colpito in modo particolare, penso ad esempio al racconto del modo paziente e sereno con cui il legionario Mario D’Antoni ha sopportato la grave ferita che lo ha portato alla morte. Di ciò ne fu testimone anche un altro eroico cappellano militare, Don Enelio Franzoni, medaglia d’oro al valor militare, il quale svolse il suo apostolato in un ospedale da campo situato nelle retrovie del fronte. Ecco quel che scrisse in proposito Don Guglielmo Biasutti nel summenzionato libro:
La mattina del 29 dicembre [1941, n.d.r.], il giorno dopo la conquista di Voroscilova, fu veramente infernale. In breve la nostra piccola infermeria rigurgitò di feriti. E non solo di feriti. Chi li aveva accompagnati si soffermava un poco per riprender fiato. O qualcuno ci veniva per attingere coraggio. Ad un certo momento la ressa fu tale da recare impedimento. E il nostro bravissimo dott. Pappalepore proruppe deciso: «Chi non è ferito corra subito alle postazioni. Se rimanete qui saremo spazzati tutti...». Se n'andarono, dunque. Ma rimase lì, in piedi, uno che non pareva fosse ferito: il mio caro, semplice ed umile D'Antoni Mario. Non pareva ferito. Lo guardai e mi sorrise. Ed io allora osai dirgli: «E tu perché non vai?». Mi rispose: «Sono ferito anch'io, signor cappellano». Non gli replicai nulla. Continuai ad aiutare il dottore nelle medicazioni. Ed il povero D'Antoni dovette restar male perché non mostravo maggiore interesse al suo caso. Ma sorrideva...
Poco dopo mi disse: «Signor cappellano, scrivete a mio zio dopo!». Mio Dio, com'era terribilmente chiaro quel «dopo» [evidentemente aveva capito che stava per morire, n.d.r.]. Alzai sbigottito il capo e gli chiesi: «Sei ferito gravemente?». «Credo di sì», rispose. E sorrideva come se volesse scusarsi. Lo medicammo. [...] Pochi giorni dopo il cappellano don Enelio Franzoni, dell'837° O. C. [ospedale da campo, n.d.r.] che andrà prigioniero nel 1943 e sarà poi decorato di medaglia d'oro, mi scriverà in linea questo biglietto: «Sento il dovere di comunicarvi che è morto presso questo ospedale la vostra C.n. D'Antoni Mario ed è morto come un santo». Fu l'unica lettera che ricevetti a Voroscilova. E se don Enelio sentì il dovere di scrivermela, la morte del mio buon Mario deve averlo colpito fortemente. Io ne ricorderò sempre il sorriso, quel sorriso!
Devo aggiungere qui che D'Antoni Mario era uno di quelli che tenevano su il Rosario, a sera, nel proprio plotone. Poiché occorre dire che i miei legionari dicevano il Rosario volentieri e quasi ogni sera. Ed io trovai nelle tasche di quasi tutti i Caduti la corona del Rosario, che mi servì benissimo a legare le mani perché non rimanessero scomposti nell'irrigidimento della morte. Lo dicevano non solo in linea - od anzi, ovviamente, meno in linea - lo dicevano nei mesi che passammo in Italia prima di partire; lo dicevano sui camions nella marcia di avvicinamento al fronte; lo dicevano nelle postazioni sul Dnieper; e lo dissero i superstiti nelle isbe di Mikailowka. Il Vescovo di Cassano Jonio, mons. Barbieri, additò ripetutamente dal pulpito il contegno e la fede della «Legione che prega». E pensate con quale commozione, dopo la morte di D'Antoni Mario o di qualche altro di coloro che «tenevano su il Rosario», io mi sentivo dire da qualcuno: «Signor cappellano, ho preso io il posto nella recita del Rosario».
Ed il comandante Nicchiarelli ed il vicecomandante Formica, i quali avevano voluto ricevere anch'essi la Comunione dalle mani di quel cappellano, ormai in partenza, che s'era levata benedicente su tanti Caduti e li aveva composti poi nel Cimitero di Mikailowka, i nostri comandanti assentivano commossi.
[Nella foto in basso è raffigurato Giovanni Messe (in primo piano a destra), Generale di Corpo d'Armata e comandante del CSIR, ossia il Corpo di spedizione italiano in Russia, mentre passa in rassegna un battaglione di legionari].