Dagli scritti di Padre Garrigou-Lagrange (1877-1964).
Che cos'è il difetto dominante?
È in noi quello che tende a prevalere sugli altri, e con questo sul nostro modo di sentire, di giudicare, di simpatizzare, di volere e d'agire. È un difetto che, in ciascuno di noi, ha una relazione intima col nostro temperamento individuale. Vi sono temperamenti portati alla mollezza, all'indolenza, alla pigrizia, alla gola e alla sensualità. Ve ne sono altri portati soprattutto alla collera, all'orgoglio. Non tutti saliamo sulla vetta della perfezione dallo stesso versante; quelli che sono di temperamento fiacco, debbono con la preghiera, la grazia e la virtù, diventare forti; e quelli che sono naturalmente forti al punto d'essere facilmente rigidi, debbono farsi dolci lavorando su se stessi e con l'aiuto della grazia. Prima di questa trasformazione progressiva del temperamento, il difetto dominante di ciascuno si fa spesso sentire. È il nostro nemico domestico, nell'interno di noi stessi, poiché può, se prende campo, giungere a devastare totalmente l'opera della grazia, ossia la vita interiore. È talvolta come una spaccatura in un muro che sembra solido e non lo è, come una crepa, talora impercettibile ma profonda, nella bella facciata di un edificio, che una forte scossa può far crollare. Per esempio, un'antipatia, una ripugnanza istintiva contro qualcuno, se non è vigilata e corretta a tempo dalla santa ragione, dallo spirito di fede e dalla carità, può produrre dei veri disastri in un'anima e condurla a commettere gravi ingiustizie, con le quali fa molto più male a se stessa che al prossimo, poiché è assai più dannoso il commettere l'ingiustizia che il subirla. Il difetto dominante è ancor più pericoloso perché spesso compromette la nostra buona qualità principale la quale è una felice inclinazione della nostra natura che dovrebbe essere sviluppata e poi nobilitata dalla grazia. C'è ad esempio chi è portato naturalmente alla dolcezza, ma se a causa del suo difetto dominante, che forse è la mollezza, la dolcezza degenera in debolezza, in indulgenza eccessiva, egli può giungere al punto di perdere ogni energia. Un altro al contrario, è portato naturalmente alla fortezza, ma se si lascia dominare dal suo temperamento irascibile, la fortezza degenera in lui in violenza irragionevole, causa di ogni sorta di disordini. In ogni individuo vi è del bianco e del nero, v'è un difetto dominante, ed anche una buona qualità naturale. Se siamo in stato di grazia, v'è in noi un'attrattiva speciale della grazia, che viene generalmente a perfezionare, anzitutto, quanto v'è di meglio nella nostra natura, per poi estendersi in seguito su quello che è meno buono. Così alcuni sono più portati alla contemplazione, altri all'azione. Dobbiamo quindi vigilare in modo tutto particolare affinché il difetto dominante non venga a soffocare la nostra principale buona qualità naturale, e la nostra attrattiva speciale della grazia. Altrimenti l'anima nostra sarà simile a un campo di grano invaso dal loglio o zizzania di cui parla il Vangelo. E noi abbiamo un avversario - il demonio - che cerca appunto di sviluppare sempre più in noi il nostro difetto dominante, per metterci in conflitto con quelli che lavorano con noi nel campo del Signore. In San Matteo (13, 25) il Salvatore ci dice: «Il regno dei Cieli è simile a un uomo che aveva seminato del buon grano nel suo campo. Ma mentre gli operai dormivano, venne il nemico, seminò la zizzania in mezzo al frumento e poi se ne andò». E Gesù spiega che il nemico è il demonio (13, 39) che cerca di distruggere l'opera di Dio mettendo in contrasto tra loro quelli che dovrebbero collaborare santamente ad una stessa opera per l'eternità. Ha una abilità tutta particolare nell'ingrandire agli occhi nostri i difetti del prossimo, a trasformare un granello di sabbia in una montagna, mettendo come una lente di ingrandimento alla nostra immaginazione, per farci irritare contro i fratelli, invece di lavorare con loro. Di qui possiamo intravvedere qual danno può provenire a ciascuno di noi dal nostro difetto principale, se non siamo vigilanti a reprimerlo. È spesso come un verme roditore dentro un bel frutto.
Come conoscere il nostro difetto dominante?
In primo luogo è evidente che importa assai il conoscerlo, e non farsi illusioni su tal punto. E tale conoscenza ci appare ancor più necessaria per il fatto che il nostro avversario, il nemico dell'anima nostra, lo conosce benissimo e se ne serve per mettere la discordia in noi e attorno a noi. Nella cittadella della nostra vita interiore, difesa dalle varie virtù, il difetto dominante è come il punto debole non difeso né dalle virtù teologali né da quelle morali. Il nemico delle anime cerca appunto in ciascuno di noi il punto debole, facilmente vulnerabile, e lo trova agevolmente. È dunque necessario anche per noi il conoscerlo. Ma come discernerlo? Nei principianti è assai facile, quando sono sinceri. In seguito, però, il difetto dominante diviene meno appariscente, poiché cerca di nascondersi camuffandosi da virtù; l'orgoglio prende al di fuori la veste della magnanimità, e la pusillanimità cerca di coprirsi col manto dell'umiltà. È necessario, tuttavia, arrivare a conoscere il difetto dominante, perché se non lo conosciamo, non possiamo combatterlo, e se non lo combattiamo non vi sarà in noi vera vita spirituale. Per poterlo discernere, dobbiamo prima di tutto chiedere a Dio la luce: «Signore, fammi conoscere gli ostacoli che metto, in modo più o meno cosciente, all'opera della grazia in me. Dammi poi la forza di eliminarli, e se sono negligente nel farlo, degnati eliminarli Tu stesso, per quanto io ne debba soffrire». Dopo aver così chiesto con grande sincerità questo lume dobbiamo esaminarci seriamente. E come? Chiedendo a noi stessi: A che cosa tendono le mie preoccupazioni più ordinarie la mattina al primo svegliarmi, o quando mi trovo solo; dove si fermano spontaneamente i miei pensieri ed i miei desideri? Qui dobbiamo ricordarci che il difetto dominante, che comanda facilmente a tutte le nostre passioni, si dà tutta l'apparenza di virtù, e se non fosse combattuto, potrebbe condurre alla impenitenza. Giuda vi arrivò con l'avarizia, vizio che non aveva saputo e voluto dominare; essa ve lo condusse come un impetuoso vento che sbatte una nave contro gli scogli.
Per scoprire il difetto dominante, dobbiamo pure domandarci: «Qual è generalmente la causa o la sorgente della mia tristezza e della mia gioia? Qual è il motivo generale delle mie azioni, l'origine ordinaria dei miei peccati, soprattutto quando non si tratta di una colpa accidentale, ma di un seguito di peccati, o di uno stato di resistenza alla grazia, specialmente quando questo stato dura parecchi giorni e ci porta ad omettere i nostri esercizi di pietà?». Allora dobbiamo sinceramente ricercare il motivo per il quale l'anima ricusa di ritornare al bene. Dobbiamo dirci ancora: «Che ne pensa il mio direttore? Qual è, secondo lui, il mio difetto dominante? Egli è certamente miglior giudice di me». Difatti, niuno è buon giudice in causa propria, e qui l'amore proprio ci inganna. Bene spesso il nostro direttore ha scoperto questo difetto prima di noi, e forse si è provato qualche volta a parlarcene. Noi però abbiamo forse cercato di scusarci? E qui la scusa è pronta, perché il difetto dominante eccita facilmente tutte le nostre passioni, comanda loro da padrone, ed esse gli obbediscono all'istante. In tal modo, l'amor proprio ferito eccita bentosto l'ironia, la collera, l'impazienza. Inoltre, quando il difetto dominante ha preso radice in noi, ha una ripugnanza particolare a farsi smascherare e combattere, perché vuole regnare in noi. E questo giunge talora a tal punto che se il prossimo ci accusa di tal difetto, noi gli rispondiamo: «Avrò mille difetti, ma questo veramente non l'ho». Possiamo riconoscere il difetto dominante anche dalle tentazioni che il nostro nemico suscita più spesso in noi, poiché egli suole attaccarci soprattutto da questo punto debole dell'anima nostra. Finalmente, nei momenti di vero fervore, le ispirazioni dello Spirito Santo vengono a chiederci dei sacrifici precisamente su questo punto. Se ricorriamo sinceramente a questi vari mezzi di discernimento, non ci sarà troppo difficile il riconoscere questo nemico interiore che portiamo in noi e che ci rende schiavi: «Chi si abbandona al peccato, è schiavo del peccato», dice Gesù in San Giovanni (8, 34). È come una prigione interiore che portiamo in noi, dovunque ci rechiamo. Dobbiamo perciò aspirare ardentemente alla liberazione. Qual grazia è per noi l'incontrarci con un santo che ci dica: «Ecco il tuo difetto dominante ed ecco pure l'attrattiva principale della grazia che devi seguire generosamente per arrivare all'unione con Dio». È così che il Signore chiamò figli del tuono - boanerges- i giovani Apostoli Giacomo e Giovanni, che volevano far discendere il fuoco dal cielo sopra una borgata che si era rifiutata di riceverli. Leggiamo in San Luca (9, 56) : «Egli li ammonì, dicendo: "Non sapete di qual spirito siete! Il Figlio dell'uomo è venuto, non per perdere gli uomini, ma per salvarli". Alla scuola del Salvatore i due Boanerges divennero dolci e miti, tanto che San Giovanni evangelista al termine della sua vita non sapeva più dire che una cosa: "Figliuolini miei, amatevi l'un l'altro" (1 Gv 3, 18-23). E quando gli domandavano perché ripetesse sempre la stessa cosa, rispondeva: «È il precetto del Signore e se l'osservate, avete fatto tutto». Giovanni non aveva perduto nulla del suo ardore, della sua sete di giustizia, ma queste qualità si erano spiritualizzate e accompagnate a una grande dolcezza.
Come combattere il difetto dominante?
È estremamente necessario il combatterlo perché è il principale nemico interiore, e quando questo è vinto, le tentazioni non sono più tanto pericolose, ma sono piuttosto occasioni di progresso. Ma questo difetto non può dirsi vinto finché non v'è un vero progresso nella pietà o nella vita interiore, fino a che l'anima non è giunta ad un vero e stabile fervore di volontà, vale a dire, a quella prontezza della volontà al servizio di Dio che é, secondo San Tommaso, essenza della vera devozione. Per questo combattimento spirituale è necessario ricorrere a tre mezzi principali: la preghiera, l'esame e una sanzione. La preghiera sincera: «Signore, mostratemi qual è l'ostacolo principale alla mia santificazione, quello che mi impedisce di profittare delle grazie ed anche delle difficoltà esteriori che concorrerebbero al maggior bene dell'anima mia se al momento opportuno sapessi meglio far ricorso a Voi, mio Dio». I Santi arrivano fino a dire, come San Ludovico Bertrando: «Hic ure, Domine, hic seta ut in aeternum parcar. Signore, brucia e diretta in me tutto quello che mi impedisce di venire a Te, purché Tu mi faccia grazia per l'eternità». San Nicola da Flue diceva pure: «Signore, togli da me tutto quello che m'impedisce di venire a Te; dammi tutto quello che può condurmi a Te; prendimi a me stesso, e dammi tutto a Te». Questa preghiera non dispensa già dall'esame, ma al contrario, vi ci porta. Anzi - come dice S. Ignazio - sarebbe bene soprattutto per i principianti, di scrivere ogni settimana quante volte hanno ceduto al difetto dominante, che vuol regnare in essi come un despota. È più facile ridere senza frutto di questo metodo che praticarlo con vantaggio. Se contiamo il denaro speso e quello ricevuto, è ancor più utile il sapere quali sono le nostre perdite e i nostri guadagni dal punto di vista spirituale per l'eternità. Finalmente, è cosa opportunissima l'imporci una sanzione, una penitenza, ogni volta che ricadiamo in quel difetto. Questa penitenza potrà essere una preghiera, un momento di silenzio, una mortificazione interna o esterna. V'è in questo una riparazione della colpa ed una soddisfazione per la pena che le è dovuta. Al tempo stesso acquistiamo in tal modo maggiore circospezione per l'avvenire. Così molti sono guariti dall'abitudine di mandare imprecazioni coll'imporsi ogni volta un'elemosina in riparazione. Prima di vincere il nostro difetto dominante, le nostre virtù sono spesso piuttosto buone inclinazioni naturali che vere e solide virtù radicate in noi. Prima di questa vittoria, la sorgente delle grazie non è ancora abbastanza aperta sulle anime nostre perché cerchiamo ancora troppo noi stessi e non viviamo abbastanza per Iddio. Dobbiamo finalmente vincere la pusillanimità che ci porta a pensare che il nostro difetto dominante sia affatto impossibile a sradicarsi. Con la grazia, però, possiamo dominarlo, perché come dice il Concilio di Trento (Sess. VI, cap. 11), citando Sant'Agostino: «Dio non comanda mai l'impossibile, ma, dandoci i suoi comandi, ci dice di fare quanto possiamo dal canto nostro e di chiedere la grazia per compiere quanto non possiamo». È stato detto che, in questo caso, il combattimento spirituale è più necessario della vittoria, poiché, se ci dispensiamo da questa lotta, abbandoniamo la vita interiore, e cessiamo di tendere alla perfezione. Non dobbiamo mai far pace coi nostri difetti. Non dobbiamo, finalmente, prestar fede al nostro avversario quando cerca di persuaderci che tale lotta non conviene che ai Santi per giungere alle regioni più elevate della spiritualità. È verità indiscutibile che, senza questa lotta perseverante ed efficace, l'anima nostra non può aspirare sinceramente alla perfezione cristiana, verso la quale il comandamento massimo fa a tutti un dovere di tendere. Questo comando è difatti illimitato: «Amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta l'anima tua, con tutte le tue forze e con tutto il tuo spirito, e il prossimo tuo come te stesso» (Lc 10, 27). Senza questa lotta, non vi può essere né gioia interiore né pace, poiché la tranquillità dell'ordine, ossia la pace, proviene dallo spirito di sacrificio; questo solo ci stabilisce interiormente nell'ordine, facendo morire in noi tutto quanto vi è di sregolato. Solo allora la carità, l'amore di Dio e delle anime in Dio, finisce col prevalere del tutto sul difetto dominante, allora essa occupa veramente il primo posto nell'anima nostra e vi regna efficacemente. La mortificazione, che fa sparire il nostro difetto principale, ci dona la libertà, assicura il predominio in noi delle nostre vere qualità naturali e della nostra attrattiva speciale di grazia. Così arriviamo, a poco a poco, ad essere noi stessi, nel senso più ampio della parola, vale a dire ad essere soprannaturalmente noi stessi, senza i nostri difetti. Non si tratta di copiare in modo più o meno servile le qualità altrui, né di entrare in uno stampo uniforme, eguale per tutti. Nelle personalità umane regna una varietà grandissima, come nelle foglie e nei fiori non ne troviamo due che siano perfettamente eguali. Non dobbiamo però subìre il nostro temperamento ma trasformarlo conservando di esso quanto v'è di buono. Il carattere deve essere nel nostro temperamento, l'impronta delle virtù acquisite e infuse, soprattutto delle virtù teologali. Allora, invece di riportare istintivamente tutto a sé - come quando il difetto dominante regna in noi - ci sentiamo portati a ricondurre tutto a Dio, a pensare quasi di continuo a Lui e a non vivere che per Lui, conducendo in qualche modo verso di Lui tutti quelli che vengono a noi.
(Brano tratto da "Le tre età della vita interiore" vol. II, di Padre Réginald Garrigou-Lagrange, Edizioni Vivere In)
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